Oggi, in uno scenario indescrivibile, ho corso e portato a termine la mia prima maratona.
La sveglia è suonata di buon’ora stamattina, nessun trauma, nessuna fatica a svegliarsi, anche perché non sono riuscito a dormire in maniera lineare per tutta la notte, forse per la tensione, forse per la cena esagerata a base di spaghetti (ma è un must della vigilia). Il puIlman, partito dall’hotel alle 5:30, è arrivato come da programma prima delle 7 a Staten Island, ai piedi del ponte di Verrazzano, luogo di partenza della maratona. L’area è già stracolma di maratoneti, tutti protetti da giacconi, berretti e guanti per l’improvviso abbassamento della temperatura (6/7 gradi rispetto ai 16/17 del giorno prima). Le partenze dei 40.000 runners sono previste in 3 ondate, la mia è la seconda, quella delle ore 10. Per ingannare il tempo e per riscaldarci, organizziamo dei giochi di gruppo, ci raccontiamo delle esperienze in allenamento e cerchiamo di ripararci in tutti i modi da un leggero ma penetrante vento mattutino. Ne approfitto per chiedere ancora consigli ai veterani e alla mia allenatrice che correrà la sua 28esima maratona. Alle 9 consegno la borsa, con tutto quello che dovrò trovare al mio arrivo, soprattutto abiti asciutti, acqua e sali minerali e una giacca a vento, visto che l’arrivo è previsto nel pomeriggio. Alle 10:05, un tuono di cannone, da inizio alla mia prima maratona e parte il cronometro; sono molto emozionato e stupito dalla grande organizzazione. Nessun intoppo, nessuna difficoltà, tutto come previsto, anche grazie alla massiccia presenza di volontari, agenti di polizia e 2 elicotteri che sorvolano la zona per verificare che tutto proceda nel migliore dei modi. Il primo miglio è in salita e si attraversa il ponte di Verrazzano, fa molto freddo e decido per il momento di non gettare i pantaloni lunghi, la felpa ed il berretto che indosso (come previsto a tutte le partenze della maratona di NY per lasciare qualcosa ai clochard newyorkesi). Continuo la mia corsa guardando costantemente il cronometro e la fascia che porto sul braccio destro con tutte le medie per miglio. Curiosamente, alcuni giapponesi iniziano a parlarmi (in giapponese), perché vedono un nome e la bandiera giapponese sul mio copricapo, ci auguriamo un bel ‘good luck’. L’arrivo a Brooklyn è magico, centinaia di persone ai fianchi della strada che gridano e ti incitano. Ogni miglio circa, gruppi jazz e blues allietano i corridori con musiche e canzoni più o meno conosciute. il 5° km è il mio primo traguardo e mi emoziona; non per la distanza o il tempo, ma per il fatto che, il chip che porto sulla scarpa destra, segnala il mio passaggio al Sistema di Controllo che si occupa di comporre una email con i dati e la invia direttamente ai miei familiari ed amici che stanno seguendo in diretta la maratona. Sorrido pensando che festeggeranno le mie tappe e conosceranno prima di me i risultati e le medie al passaggio di ogni quinto chilometro. Le gambe iniziano a scaldarsi, sento che posso correre più velocemente, ma mi è stato detto di ‘risparmiare’, getto gli indumenti superflui che iniziano a farmi sudare. Al 13° miglio, a metà maratona, guardo il cronometro e mi accorgo di essere in ritardo rispetto alla tabella di marcia di 7 minuti, aumento il ritmo della corsa e al miglio successivo recupero 3 minuti e quindi penso di potercela fare ad allinearmi. Al miglio successivo il ritardo è ancora di 5 minuti che diventano 9 attraversando il lunghissimo Queensboro Bridge che collega la zona dei Queens con Manhattan. A questo punto non penso più ai tempi sono nella Grande Mela e mi appare davanti la First Avenue: uno spettacolo! Vedo di fronte a me 6 km di strada dritta, ma dal profilo altalenante; sembra un fiume in movimento e lo è; solo che al posto dell’acqua c’è un brulichio di divise colorate in movimento. Si vedono in questo lunghissimo tratto, le prime persone in difficoltà soprattutto per crampi; io mi sento bene anche perché, per evitarli, ho bevuto acqua ad ogni ristoro, come consigliato da Julia; mi aspettavo anche dei dolori alle ginocchia che per fortuna non sono mai arrivati; sono contento ma continuo a correre in modo cauto. Al passaggio del penultimo ponte, quello che porta nel Bronx comincio a sentirmi proprio stanco, ho già corso per più di 32 chilometri, cammino e trovo da chiacchierare con un americano anche lui alla prima esperienza. Mi rimetto in moto ed arrivo al Madison Avenue Bridge, l’ultimo ponte, quello che porta a Manhattan e che segna le 21 miglia trascorse. Percorro altre 2 miglia, sempre più stanco, entro in Central Park e mi vengono in mente le parole di Giorgio, un maratoneta conosciuto un paio di giorni prima alla sua 31esima esperienza: “Quando arrivi al parco, mancano 5 km all’arrivo ed è il momento di tenere duro!”. Io ci provo, ma mi rendo subito conto che, l’ultimo tratto è un saliscendi con predominanza in salita, corro e cammino, corro e cammino e corro ancora, anche se in queste ultime fasi la parola correre è inappropriata. Ai lati del percorso in una cornice indescrivibile di verde e specchi d’acqua, con sfondo generato dai grattacieli, migliaia e migliaia di persone ti incitano a proseguire e gridano ‘good job’, ‘don’t stop’, ‘you can do it’. Questa grida per molti sono la panacea per riuscire a non fermarsi e proseguire nonostante il corpo continui a chiedere l’alt immediato. Ma io, per lunghi tratti, preferisco camminare guardando la gente in faccia che ti urla a squarciagola e sembra più sconvolta di te. E mi piace assorbire questa energia, fino a quel momento a me sconosciuta. Vedo il cartello delle ultime 2 miglia, quello successivo non appare mai e, dopo un periodo che sembra infinito compare la scritta 1/2 miglio all’arrivo… Gli ultimi 400 metri riesco a farli di corsa (per modo di dire) e alzando le mani, varco la linea del traguardo; il cronometro segna 5 ore 26’ 27” e felice di averla conclusa, mi vien quasi da piangere. Sento poco le gambe, ma devo continuare a camminare come mi è stato raccomandato poche ore prima. Faccio 10 metri e mi infilano la medaglia al collo, mi fanno la foto e mi avvolgono in una termocoperta; mi invitano a proseguire e mi consegnano il pacco gara, che contiene acqua, una bottiglia di Gatorade e un panino, tento di mangiare ma il mio stomaco rifiuta in qualche modo il cibo; mi limito a bere. Cammino ancora x 800 metri raggiungo il camion UPS che riporta il colore e i numeri corrispondenti al mio di pettorale, recupero la mia borsa che contiene tutto l’occorrente per il dopo corsa, mi infilo la giacca a vento e mi dirigo verso l’hotel assieme a migliaia di altri runners. Il sole ormai è scomparso dietro gli enormi palazzi adiacenti a Central Park, lasciando spazio al vento che pizzica come non mai in questa giornata, comincio a sentire molto il freddo, le gambe sono completamente indolenzite e le giunture non sembrano più le mie. Sono costretto a camminare per quasi un’ora nella speranza di trovare un taxi libero per raggiungere il mio hotel, che non trovo; in camera mi aspetta un bagno di 45 minuti caldo e rilassante e un paio d’ore di riposo assoluto; sono esausto e infreddolito, ma molto molto soddisfatto di avercela fatta. Alle 20:00 è organizzata una cena con alcuni compagni di avventura italiani, anche loro molto stanchi; tutti raccontano la propria esperienza e qualcuno chiede a voce alta: “dove andiamo a fare la prossima ragazzi? Parigi, Londra o ritorniamo a New York?” Io non dico niente ma dentro di me penso: “ma siamo fuori?” …
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R. Dalla ValleAppassionato di Giappone e praticante di Ki Aikido mi diletto a scrivere su qualche esperienza che ho vissuto ultimamente... Archives
Giugno 2013
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